lunedì 22 luglio 2013

Dazarhahs.

In questi giorni vado in ufficio sempre ben vestita.

Coordino le scarpe con gli orecchini, mi permetto le scollature più autoreferenziali, l'altro giorno ho indossato persino una minigonna, come le mie gambe non vedevano da almeno dieci estati fa. Bianca, a balze di pizzo e cotone, assieme a un paio di ciabattine d'argento con un minuscolo tacco.

QuasiCapoF., che è un ex militare nonché un giovane di spiccata sensibilità e assillante dirittura morale, mi ha soprannominata la Ballerina da Tavolo. La collega presente mi ha chiesto perché non lo picchiavo; ho risposto che a vent'anni forse lo avrei fatto e me ne sarei andata sdegnata, ma dato che ho superato i quaranta e non ballo dall'ultima festa invernale di compleanno dei bambini, l'ho ringraziato del complimento.

CollegaD non mi parla più, preferisce rivolgersi direttamente alle mie tette.

Un paio di colleghe disapprovano -  va bè, facciamo quattro o cinque - mostrando diverse sfumature, dalla perplessità simpatetica al disprezzo venato di sarcasmo al muro di astio. Io mi chiudo negli atti di nascita da trascrivere, m'infilo nei meandri dei multipli cambiamenti di nome cui sono sottoposte le donne straniere che acquisiscono la nazionalità italiana, pazientemente dipano le loro vicende dalla nascita in luoghi lontani al matrimonio al passaggio in una terra straniera dove, dopo aver lavorato e figliato e amato e sofferto ottengono la cittadinanza italiana, al prezzo di cambiare cognome, perdere un pezzo di nome, adeguarsi alla nostra piatta regola della patrilinearità.

Giuro di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato.

E intanto quando mi alzo dalla scrivania per andare a fotocopiare la carta d'identità di quelli che vengono a fare le pubblicazioni di matrimonio li vedo, i fidanzati, che mi guardano le gambe. "Puoi celebrarlo tu, per favore, il nostro matrimonio?". Certo che posso, tanto anche la fidanzata è contenta, in fondo lei ha vent'anni e io potrei essere sua madre, e un bell'Ufficiale di Stato Civile fa bella figura alla cerimonia.

Ogni tanto mi chiedo cosa mi abbia preso.

E' come se ci fosse un'altra me che non ha spazio, non riesce a venire fuori, tra i discorsi e le esigenze, reali o indotte, dei figli, tra il lavoro e la stanchezza del marito, tra i problemi, le angustie e i panegirici degli ormai numerosi parenti molto anziani, tra le mie insicurezze di madre sui generis, lavoratrice indefessa ma sempre convinta di non essere all'altezza, donna di casa risibile, cuoca nulla, sperperatrice dei nostri pochi spiccioli in oggetti compensatòri - sei braccialettini rigidi d'argento. Perché proprio sei? Perché hanno un significato.

Mi sento una Shahrazad al contrario.

Lei, per restare in vita raccontò storie per mille e una notte, finché lo Scià, probabilmente per disperazione, la fece smettere e per punizione, invece di decapitarla, la sposò. Io mi sento una Shahrazad al contrario, c'è sempre qualcuno in ogni momento pronto a raccontarmi i suoi difficili rapporti con alcuni parenti, il proprio drammatico divorzio, le vicende alterne di un devastante mal di stomaco, le nequizie di una nuora sordida, i misteri complessi di yu-gi-oh e fruit ninja, il decline and fall di una società sportiva e dei suoi accoliti, o più semplicemente ma sempre diffusamente drammi d'amore, sedute di shopping, la filosofia buddista o gli innumerevoli e imperdibili vantaggi di una dieta a base di legumi bio.

Io non riesco a parlare.

Ci ho provato con qualche  cara amica, che mi ha detto "Sì sì sì, fai bene, adesso però ti devo raccontare...". Mi sento come se avessi un pallone da calcio in mezzo al petto, a volte vorrei sbattermi in terra, piantarmi un ago tra le costole per farlo scoppiare. Invece mi chiudo e mi giro la chiave come un lucchetto, ascolto chi devo ascoltare, continuo a fare quello che devo fare. Faccio finta di non vedere i bambini che lasciano tutto in giro, il marito che arrotola i calzetti dentro le mutande, la collega che aspetta al varco ogni mia minima disattenzione, mio padre di ottantacinque anni che mi spiega come devo parcheggiare l'auto. Faccio finta di non vedere i soldi che non ci sono, le vacanze che non si possono fare, il divano dove non ci si può trasferire a dormire quando il marito russa perché è vecchio e pieno di buchi, il divano.

Dentro di me c'è un'estranea.

Un'estranea che mentre lavoro sei ore al giorno dal lunedì al sabato, mentre porto i figli al mare o in piscina o a musica, mentre lavo i piatti o stendo i panni o stiro o preparo vagamente da mangiare o organizzo una cena per tirare su il morale a mia madre o accompagno mio padre dall'oculista, lei nel frattempo si mette la minigonna e si trucca, si smalta le unghie e sogna sogni molto stupidi.

A volte desidera, persino.

4 commenti:

  1. Un mio me
    soffre. Chi è? Chi scalcia sul fondo
    di questo quieto piroscafo. Giù
    nella stiva il passeggero più vivo
    batte i suoi colpi.
    Chi lo tiene sepolto? E che cosa vuole
    questo bastardo bambino che scalcia?
    Nel fondo di me, un me soffre -
    la sua bandiera stropicciata
    non ha nessun vento.
    E’ murato. Il bambino più vivo
    murato sul fondo.
    Con la sua magra manina
    mi stringe il cuore al mattino
    un poco stringe e duole.
    Che cosa prometto quest’oggi al mio
    prigioniero? Con quali parole false
    lo tengo zitto per un giorno intero?

    Mariangela Gualtieri


    Jonuzza
    http://no.blog.kataweb.it/category/poesia/

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    1. mamma quant'è bella. grazie, jonuzza! da me ultimamente il bambino è evaso, speriamo non faccia troppi danni. ho girato la testa un attimo ed è fuggito, vedremo dove andrà...

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  2. viva l'evasione dei bambini!!!!!
    Jonuzza

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