La nonna aveva detto solo quello, poi era ammutolita. Continuava a sorridere e a guardare il cappello, dimentica di me, del fatto che mi doveva una storia.
Chi era Charles, e perché quel cappello gli apparteneva? Ne aveva uno solo? Com'era finito nel comò di mia nonna? Dov'era andato Charles, senza il suo cappello? E lui, com'era? Era grigio, come quel feltro, oppure rosso vivo? era alto, basso, magro, grasso, con i baffi o senza?
Ma sapevo che incalzare nonna Ellie con le domande avrebbe avuto solo effetti negativi. Lei amava raccontare le storie a modo suo e in genere ne valeva la pena, quindi mi mangiai la lingua ed aspettai.
Dopo un poco nonna Ellie appoggiò il feltro e ritornò alla sua poltrona, senza riprendere in mano il cucito. Si mise a sedere. La ricordo, quel pomeriggio, come se fosse ancora lì, con il sole pomeridiano che filtrava dal giardino e illuminava i suoi capelli sale e pepe e la pelle scura, su cui il tempo aveva lasciato una patina opaca.
“Charles suonava nel club di nonno Lucas. Cioè, per te bisnonno Lucas. Il mio papà.”
Sapevo che nonno Blaine era stato il primo uomo di colore a possedere un locale pubblico a Fairwheel e, per dirla tutta, nell'intero Stato. Lo aveva vinto giocando a carte, sentivo dire ogni tanto ai parenti di mio padre, per i quali tutto ciò che aveva a che fare con la musica o l'arte era roba per gente che non aveva voglia di lavorare. Aveva acquistato il locale e la licenza faticando come una bestia per quindici anni anni nelle miniere dello Yukon, mi raccontava invece mia madre quando passavamo accanto al luogo dove una volta sorgeva il club, trasformato poi in un cinema, infine in un residence di mini appartamenti. Il club si chiamava The Gold Digger, ma tutti lo chiamavano semplicemente The Gold.
“Suonava il pianoforte e il violino. Aveva studiato alla Juilliard, a New York, suo padre voleva che diventasse un grande violinista classico. Ma a lui piaceva il blues.”
“E così era tornato qui.”
“Esatto, era tornato qui, dove si faceva il miglior blues del Nord America, meglio anche di quello di New York perché qui, al contrario di là, c'era tempo per pensare. E a lui pensare piaceva molto.”
“Cos'altro gli piaceva, nonna?” chiesi. Il cappello grigio posato sul copriletto ricamato evidentemente possedeva un'anima, un'anima affascinante che intendevo scoprire.
“Gli piaceva camminare.”
Emisi un mormorìo di disappunto. Camminare non mi sembrava un'attività degna di un uomo affascinante.
“Suppongo che tutto quel camminare fosse connesso al pensare. Non ne abbiamo mai parlato, in effetti, ma credo fosse così. Certi pomeriggi lo vedevi imboccare la Union Road in direzione delle colline con le mani in tasca. Diventava sempre più piccolo, sempre più lontano, e poi spariva.
Papà si preoccupava se la sera al locale c'era musica, e in certi periodi si faceva musica tutte le sere, ma io gli dicevo: 'non ti preoccupare, papà. Quando è ora di suonare, vedrai che torna'. E lui tornava.”
“Sei mai andata con lui?”
“Qualche volta, quando me lo chiedeva. Ma gli piaceva camminare da solo. Non puoi pensare, se non sei da solo.”
Me lo immaginavo, questo tipo. Lo vedevo con i pantaloni e le scarpe a punta, il cappello di feltro grigio e le mani in tasca, avviarsi di buon passo e scomparire lungo la Union Road.
“Era bravo? A suonare, intendo.”
“Mio padre diceva che aveva le dita d'oro. E se lo diceva The Gold Digger, potevi crederci. In effetti era così; venivano da lontano, oltre i confini dello Stato, per ascoltare Charlie quando suonava col gruppo e ancora di più quando suonava il piano solo per me, solo io e lui, musica e voce. Riempivamo il locale al punto che le cameriere non riuscivano più a muoversi tra i tavoli per portare le ordinazioni. Eleanor Blaine e Charles Colbert, voce e pianoforte. Dev'esserci ancora qualche vecchia locandina, in quella cassapanca”, disse nonna Ellie, agitando una mano nella mia direzione. Mi alzai ed andai a frugare.
“Colbert... come il sindaco?” chiesi.
“John Colbert, nostro attuale amatissimo sindaco, è un nipote di Charles. Figlio di uno dei suoi fratelli minori, Simon o Stephan, non ricordo.”
Mentre la nonna parlava avevo trovato quello che cercavo nel mucchio di carte in fondo al baule, in un angolino dove non avevo mai guardato perché tutti quei fogli gialli mi parevano roba poco interessante. Posai con cautela la locandina sul tavolino accanto alla poltrona della nonna, presi gli angoli con delicatezza e la aprii.
sabato 25 febbraio 2012
giovedì 16 febbraio 2012
The way you wear your hat. Capitolo primo
Qualche volta capitavo dalla nonna il pomeriggio, d'estate. Quando mamma aveva il turno in ospedale e papà era alla rimessa a sistemare una delle auto d'epoca che richiedevano tutte le sue abilità di meccanico e, per un po', tutto il suo tempo ed il suo cuore.
Mamma ci caricava in macchina, me e Jules, e ci lasciava da nonna Ellie fin dopo cena. Poi tornava a prenderci, passavamo da papà che ci mostrava entusiasta il suo ultimo grande amore, una Buick o una Chrysler o che altro, continuando a parlare di parti meccaniche, motore, carrozzeria finché a Jules cominciava a ciondolare la testa e tornavamo a casa, e la mamma metteva da parte un piatto coperto con la cena per papà.
Poi lo sentivamo tornare, tardi, li sentivamo ridere e chiacchierare in cucina, ma a quel punto si supponeva fossimo già addormentati e noi fingevamo, quando lui entrava in camera a darci un bacio sulla guancia a notte fonda.
Ma vi stavo raccontando di nonna Ellie.
Avevamo un'abitudine, io e lei.
Non appena Jules vinto dal caldo e dal silenzio del primo pomeriggio si addormentava tra i cuscini del divano, la nonna ed io andavamo nella sua stanza. Lei sedeva in una vecchia poltrona a fiori accanto alla finestra che dava sul giardino e prendeva in mano qualcosa da rammendare o da ricamare. Non so dove trovasse tutta quella roba da cucire - calze da uomo, abiti femminili, interi corredi da bambino. Probabilmente le vicine le passavano tutto il loro lavoro, tanto nonna Ellie era velocissima e precisa. Ora che ci penso, non l'ho mai vista sedersi in quella poltrona senza far niente.
Intanto io avevo il permesso di andare a frugare nei cassetti del suo vecchio comò e tirare fuori quello che volevo.
Nonna Ellie era estremamente ordinata, cosa che non ho ereditato affatto. Le mie dita impazienti stropicciavano la carta velina profumata di talco e dissotterravano meraviglie: spille di jais, colletti di pizzo coi bottoncini di madreperla, minuscole scarpe col mezzo tacco e i fiocchi di gros-grain – nonna Ellie aveva i piedi piccolissimi, altra cosa che non ho ereditato.
Il patto era che potevo frugare finché ne avessi avuto voglia, tirare fuori oggetti e disporli sulla coperta del grande letto di ferro battuto.
Ma avrei potuto avere una sola storia alla volta.
Quindi ogni pomeriggio disseppellivo gli affascinanti barlumi del passato di nonna Ellie, li schieravo sul letto e, con pazienza da archeologa, li scrutavo a lungo, cercando d'intuire quale di quegli oggetti potesse essere il portatore della storia più interessante.
Ho sempre avuto l'istinto della gazza, mi gettavo avida sulle collane, le spille, o qualsiasi cosa luccicasse, fosse pure un tappo di gazzosa.
Ricordo però un pomeriggio in cui, rovistando nel fondo di un cassettone, trovai un cappello di feltro grigio da uomo. Conservava ancora la sua forma, nonostante l'aspetto vetusto, perché era stato riempito con cura di carta di giornale e ricoperto da molti strati di velina.
Nonna Ellie alzò la testa al rumore della carta che veniva appallottolata e messa da parte, ma non disse nulla. Allineai il cappello in fila con le altre scoperte di quel pomeriggio – un paio di lunghi guanti di raso che una volta dovevano essere stati bianchi, il programma di un concerto di musica classica vecchio di cinquant'anni, un anello d'argento con un castone riccamente lavorato, ma da cui mancava la pietra. Ci pensai un po' su, mentre la nonna mi sbirciava da sopra gli occhialini che usava per cucire, poi feci la mia scelta.
“Questo” dissi, indicando il cappello di feltro.
La nonna appoggiò il cucito e si tolse gli occhiali. Non lo faceva mai, di solito parlava continuando a lavorare. Quella volta invece si alzò dalla poltrona, attraversò la stanza, prese delicatamente in mano il cappello e si mise a sedere sul letto, accanto a me.
“Charles”, disse e sorrise, accarezzando il feltro sbiadito dal tempo.
“Questo era il cappello di Charles”.
Mamma ci caricava in macchina, me e Jules, e ci lasciava da nonna Ellie fin dopo cena. Poi tornava a prenderci, passavamo da papà che ci mostrava entusiasta il suo ultimo grande amore, una Buick o una Chrysler o che altro, continuando a parlare di parti meccaniche, motore, carrozzeria finché a Jules cominciava a ciondolare la testa e tornavamo a casa, e la mamma metteva da parte un piatto coperto con la cena per papà.
Poi lo sentivamo tornare, tardi, li sentivamo ridere e chiacchierare in cucina, ma a quel punto si supponeva fossimo già addormentati e noi fingevamo, quando lui entrava in camera a darci un bacio sulla guancia a notte fonda.
Ma vi stavo raccontando di nonna Ellie.
Avevamo un'abitudine, io e lei.
Non appena Jules vinto dal caldo e dal silenzio del primo pomeriggio si addormentava tra i cuscini del divano, la nonna ed io andavamo nella sua stanza. Lei sedeva in una vecchia poltrona a fiori accanto alla finestra che dava sul giardino e prendeva in mano qualcosa da rammendare o da ricamare. Non so dove trovasse tutta quella roba da cucire - calze da uomo, abiti femminili, interi corredi da bambino. Probabilmente le vicine le passavano tutto il loro lavoro, tanto nonna Ellie era velocissima e precisa. Ora che ci penso, non l'ho mai vista sedersi in quella poltrona senza far niente.
Intanto io avevo il permesso di andare a frugare nei cassetti del suo vecchio comò e tirare fuori quello che volevo.
Nonna Ellie era estremamente ordinata, cosa che non ho ereditato affatto. Le mie dita impazienti stropicciavano la carta velina profumata di talco e dissotterravano meraviglie: spille di jais, colletti di pizzo coi bottoncini di madreperla, minuscole scarpe col mezzo tacco e i fiocchi di gros-grain – nonna Ellie aveva i piedi piccolissimi, altra cosa che non ho ereditato.
Il patto era che potevo frugare finché ne avessi avuto voglia, tirare fuori oggetti e disporli sulla coperta del grande letto di ferro battuto.
Ma avrei potuto avere una sola storia alla volta.
Quindi ogni pomeriggio disseppellivo gli affascinanti barlumi del passato di nonna Ellie, li schieravo sul letto e, con pazienza da archeologa, li scrutavo a lungo, cercando d'intuire quale di quegli oggetti potesse essere il portatore della storia più interessante.
Ho sempre avuto l'istinto della gazza, mi gettavo avida sulle collane, le spille, o qualsiasi cosa luccicasse, fosse pure un tappo di gazzosa.
Ricordo però un pomeriggio in cui, rovistando nel fondo di un cassettone, trovai un cappello di feltro grigio da uomo. Conservava ancora la sua forma, nonostante l'aspetto vetusto, perché era stato riempito con cura di carta di giornale e ricoperto da molti strati di velina.
Nonna Ellie alzò la testa al rumore della carta che veniva appallottolata e messa da parte, ma non disse nulla. Allineai il cappello in fila con le altre scoperte di quel pomeriggio – un paio di lunghi guanti di raso che una volta dovevano essere stati bianchi, il programma di un concerto di musica classica vecchio di cinquant'anni, un anello d'argento con un castone riccamente lavorato, ma da cui mancava la pietra. Ci pensai un po' su, mentre la nonna mi sbirciava da sopra gli occhialini che usava per cucire, poi feci la mia scelta.
“Questo” dissi, indicando il cappello di feltro.
La nonna appoggiò il cucito e si tolse gli occhiali. Non lo faceva mai, di solito parlava continuando a lavorare. Quella volta invece si alzò dalla poltrona, attraversò la stanza, prese delicatamente in mano il cappello e si mise a sedere sul letto, accanto a me.
“Charles”, disse e sorrise, accarezzando il feltro sbiadito dal tempo.
“Questo era il cappello di Charles”.
lunedì 13 febbraio 2012
anche i frighi piangono.
fare la spesa a piedi in mezzo al ghiaccio. caricare tre sporte piene sul passeggino. in discesa.
unico aiuto: un negoziante che ti fa "signora, metta le catene!" mentre arranchi sbandando.
procurarsi una pala da un vicino lontano cinque isolati promettendo prestazioni che non si è più fisicamente in grado di fornire dall'ormai lontano millenovecentoottantasette. spalarsi un cunicolo dalla porta alla strada. al primo colpo, il manico della pala si rompe.
unico aiuto: il vicino alto due metri, che con quattro palate ha spaccato tutto il ghiaccio, sputando frasi strane in genovese stretto.
inventarsi un attrezzo lungo abbastanza per abbattere i cannoli di ghiaccio che pencolano dalla gronda minacciando di uccidere i tuoi figli, i tuoi vicini, i figli dei tuoi vicini e quello stronzo del cane di fronte che continua a fare pisciate giallo canarino nella neve. sporgersi dalle finestre e prendere a mazzate i cannoli sperando che non passi nessuno e che la fiat parcheggiata sotto non si rovini troppo. fare finta di non soffrire di vertigini e sentirsi morire due ore dopo, ripensandoci stesa a letto.
unico aiuto: il tifo dei passanti e l'ammirazione dei vicini, che chiedono subito l'attrezzo in prestito.
andare a vedere se le macchine ci sono ancora. ci sono, ma quali sono? scostare la neve da un po' di carrozzerie. individuata la y10 classe 1994, spalare il panettone dal parabrezza e spruzzare l'antigelo sul tergicristalli. accorgersi che tra la portiera e il muretto di fianco si sono accumulati ottanta centimetri di neve (trenta dei quali ti s'infilano tra la pedula e il calzettone a rombi). evitare per un pelo di essere presi sotto da un vecchietto che slitta con una vecchia polo senza gomme termiche sulla strada rigorosamente spalaneve-free.
unico aiuto: l'autoironia?
se rinasco, rinasco femmina. di quelle con le unghie lunghe, che non spalano la neve, non costruiscono attrezzi per abbattere le candele di ghiaccio, non sanno montare le catene.
(epilogo: "marlowe, dove stai andando?" "a fare la spesa." "ma l'ho già fatta io stamattina, sessanta euro di roba..." "sì, ma non ci sono le bibite e hai preso pochi dolcetti.")
VOGLIOMORIREEEEEEEEE
unico aiuto: un negoziante che ti fa "signora, metta le catene!" mentre arranchi sbandando.
procurarsi una pala da un vicino lontano cinque isolati promettendo prestazioni che non si è più fisicamente in grado di fornire dall'ormai lontano millenovecentoottantasette. spalarsi un cunicolo dalla porta alla strada. al primo colpo, il manico della pala si rompe.
unico aiuto: il vicino alto due metri, che con quattro palate ha spaccato tutto il ghiaccio, sputando frasi strane in genovese stretto.
inventarsi un attrezzo lungo abbastanza per abbattere i cannoli di ghiaccio che pencolano dalla gronda minacciando di uccidere i tuoi figli, i tuoi vicini, i figli dei tuoi vicini e quello stronzo del cane di fronte che continua a fare pisciate giallo canarino nella neve. sporgersi dalle finestre e prendere a mazzate i cannoli sperando che non passi nessuno e che la fiat parcheggiata sotto non si rovini troppo. fare finta di non soffrire di vertigini e sentirsi morire due ore dopo, ripensandoci stesa a letto.
unico aiuto: il tifo dei passanti e l'ammirazione dei vicini, che chiedono subito l'attrezzo in prestito.
andare a vedere se le macchine ci sono ancora. ci sono, ma quali sono? scostare la neve da un po' di carrozzerie. individuata la y10 classe 1994, spalare il panettone dal parabrezza e spruzzare l'antigelo sul tergicristalli. accorgersi che tra la portiera e il muretto di fianco si sono accumulati ottanta centimetri di neve (trenta dei quali ti s'infilano tra la pedula e il calzettone a rombi). evitare per un pelo di essere presi sotto da un vecchietto che slitta con una vecchia polo senza gomme termiche sulla strada rigorosamente spalaneve-free.
unico aiuto: l'autoironia?
se rinasco, rinasco femmina. di quelle con le unghie lunghe, che non spalano la neve, non costruiscono attrezzi per abbattere le candele di ghiaccio, non sanno montare le catene.
(epilogo: "marlowe, dove stai andando?" "a fare la spesa." "ma l'ho già fatta io stamattina, sessanta euro di roba..." "sì, ma non ci sono le bibite e hai preso pochi dolcetti.")
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domenica 12 febbraio 2012
giovedì 9 febbraio 2012
Please prove you're not a robot.
provaci te, quando tuo figlio ti ha scassato il tasto della J (c@§§°).
domenica 5 febbraio 2012
Ossessioni musicali.
Cosa puoi fare quando ti stanno chiudendo la miniera tuo padre ha la silicosi hai appena scoperto che la tua fidanzata è una tagliatrice di teste i colleghi sono sull'orlo del suicidio le mogli li lasciano non c'è più un quattrino per far cantare un cieco?
Naturalmente, vincere la competizione nazionale delle bande con la banda della miniera, suonando rossini.
So che mi ripeto ma, cielo, quanto amo questo film.
Naturalmente, vincere la competizione nazionale delle bande con la banda della miniera, suonando rossini.
So che mi ripeto ma, cielo, quanto amo questo film.
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sabato 4 febbraio 2012
Un figlio avanti.
"Guanciabella, tesoro, neo-cinquenne. Dillo a mamma tua, dimmelo: ma tu, cosa vuoi fare da grande?"
"Voglio aprire un blog. E voglio fare la mamma, così posso cucinare."
"Voglio aprire un blog. E voglio fare la mamma, così posso cucinare."
mercoledì 1 febbraio 2012
Auguri.
Auguri piccolo, cinque son tanti.
Tanti per difendere il fratello maggiore quando viene sgridato, tanti per indossare gli occhiali, tanti per toglierseli quando è il caso di far valere piangendo forte le proprie ragioni alla scuola materna, tanti per avere una triade di amici inseparabili, tanti per saper già leggere e scrivere perché si sta attenti alle lezioni che il fratello maggiore tiene il pomeriggio in soggiorno armato di lavagna cancellabile, tanti per voler sposare la propria mamma, per voler diventare un cavaliere medievale e per amare il mondo tanto quanto vorrei che il mondo amasse te, per tutta una lunghissimissima e felice vita.
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